Intervista a Schwazer: ‘Io, il doping, Donati, Parigi 2024’



Il marciatore: “Ora la priorità è la famiglia. Ho già perso due Olimpiadi e al momento Parigi non è un’ipotesi. Mi sento però sempre un atleta e mi alleno…”

Pier Bergonzi

L’appuntamento è per le 18.30, quando Alex rientra dopo una giornata di lavoro nella sua casa di Racines, alta Valle d’Isarco, a uno sguardo da Vipiteno. Il suo «ufficio» è la strada, dove dà consigli ai podisti amatori, quelli che sognano di correre una maratona sotto i 5′ al chilometro. La strada ai piedi delle Alpi dove, da oltre 25 anni, Alex Schwazer coltiva sogni. La strada che lo ha visto tornare con l’oro olimpico di Pechino 2008, il senso di colpa per il suo confessato ricorso al doping prima di Londra 2012, la torrida amarezza dopo il sogno spezzato di Rio 2016, la rabbia per la disillusione di Tokyo 2021 e la disincantata attesa del momento. Come tutti i campioni continua a sentirsi atleta, a comportarsi da atleta buttando legna sul fuoco sacro della speranza, perché Parigi 2024 è un progetto impossibile, ma nulla può essere escluso a priori nella sua vita scandita dai cicli olimpici.

È lì, nella sua casa con vista sul paradiso delle montagne, che Schwazer ci racconta come sta, mentre in sottofondo c’è la migliore delle colonne sonore possibili… il vociare dei suoi figli Ida, che ha sei anni, e del fratellino Noah, dovuto. Con loro c’è Kathy, che ha preso per mano Alex poco prima dello tsunami di Rio 2016 e gli ha rivelato di essere incinta di Ida poco prima della sospensione. Schwazer lotta, da oltre 7 anni ormai, contro quella che ritiene una gigantesca ingiustizia. Con Sandro Donati, il più credibile e appassionato tecnico di atletica, stava lavorando sulla poetica via della redenzione, quando è stato fermato dalla positività per tracce infinitesimali di testosterone sintetico. Alex e Sandro si sono sentiti vittime di un complotto. Le istituzioni sportive (Federatletica internazionale, Wada e Tas) non la pensano così e hanno sempre confermato la squalifica fino al 7 luglio 2024, anche quando un giudice di Bolzano, Walter Pelino, ha scritto nero su bianco sull’ordinanza di archiviazione che si ritiene “accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina siano stati alterati allo scopo di farli risultate positivi e dunque di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore Sandro Donati”. Sulla strada verso Parigi 2024 c’è però una novità, che abbiamo rivelato sulle pagine della Gazzetta. L’Aiu, l’organismo etico della federatletica mondiale, ha ritenuto come “aiuto sostanziale” la testimonianza di Schwazer, che ha smascherato una violazione delle regole antidoping. Secondo il regolamento Wada, avrebbe quindi diritto ad uno sconto sulla squalifica. “Tutto quello che avete scritto è vero – ci conferma Alex -. Non posso aggiungere altro, perché devo rispettare l’accordo di confidenzialità. Ho risposto a tutte le domande che mi sono state fatte dalla Wada e attendo fiducioso, ma senza aspettative. Le mie convinzioni sono state già confutate troppe volte, e così le mie speranze… La mia testimonianza risale a due anni fa e da allora non ho cambiato niente della mia vita”.

Ma se arrivasse la sospensione o la riduzione della squalifica, lei sarebbe pronta a tornare atleta?

“All’Olimpiade di Parigi non voglio nemmeno pensarci. È un pensiero che rimando, perché al momento la data della mia squalifica rimane il 7 luglio 2024. Ho già perso almeno due occasioni olimpiche e non voglio, non devo più farmi illusioni. E poi devo essere realista, ho 38 anni.

Dicono però che sia rimasto un atleta, che abbia ancora il peso forma e si tenga in allenamento.

“Chi ha fatto sport ad alto livello, come me, rimane atleta per sempre. Lo sport, alla fine, è uno stile di vita al quale non posso e non voglio rinunciare. Peso intorno ai 70 chili, ma perché a volte faccio un solo pasto al giorno… Sgarro molto. Non sono mai stato ossessionato dalla dieta nemmeno quando ero un vero atleta”.

“Sei giorni alla settimana. Un’oretta o al massimo un’ora e mezzo ma ad alto ritmo. Facendo poco, cerco di fare lavoro di qualità. La domenica, però, è tutta per la famiglia. Anche in questo sono cambiato: la mia famiglia è la priorità, viene prima di tutto”.

Le ha fatto piacere il successo del docu-film di Netflix?

“Moltissimo! Sta andando tutto ben oltre le mie aspettative. Speravo soltanto di avere il tempo e la capacità di spiegarmi perché anche chi non vive di sport potesse capire. E il risultato è di qualità”.

Dal mondo dell’atletica e dagli ex campioni si è sentito abbandonato?

“Ci sono campioni coi quali ho buoni rapporti e sono molto gentili con me. Un nome su tutti: Deborah Compagnoni. I miei colleghi dell’atletica, invece, non mi hanno mai perdonato la positività all’epo. Per loro sono diventati “poco frequentabili”. E lo capisco”.

“Sì, assolutamente. Ho pagato e sto ancora pagando un prezzo altissimo. Anche quelli che continuano ad accusarmi sanno che ho pagato tanto”.

Perché un fuoriclasse dalle straordinarie potenzialità cade nell’inferno del doping? Qual è la motivazione più profonda?

“In generale, la gente vede solo il campione e fatica a capire che dietro ci può essere un uomo con tutte le sue fragilità. Dopo l’oro di Pechino io ero vittima di una forte depressione. Ma l’ho capito dopo. E solo quelli che soffrono o hanno sofferto di depressione sanno che cosa vuol dire. Mi sentivo sempre stanco, non ragionavo, tutto mi costava fatica. Quando ho deciso di doparmi, quando mi sono dopato, ero disperato e non vedevo altra via. Alla fine, per me, essere trovato positivo è stato una liberazione. Ero prigioniero del doping e la cosa incredibile è che andavo piano anche con l’epo. Quello che stavo facendo non aveva alcun senso. Senza serenità, io non rendo. Ci sono campioni che hanno bisogno della rabbia o dell’odio per dare il meglio. Io invece ho bisogno di sentirmi tranquillo e in pace con la mia coscienza”.

Qual è stato l’atleta Schwazer più forte? Quello di Pechino, quello che preparava Rio? O quello che sognava Tokyo?

“Non sono mai andato forte come nella primavera del 2016. Potevo vincere tutto, dalla 10 alla 50 km, grazie a Donati che ha cambiato i miei allenamenti. A Pechino non sarei arrivato tra i primi 10 della 20, mentre nel 2016 ero diventato molto più completo”.

Hai visto la gara dell’oro di Stano nella 20 km di Tokyo?

“Sinceramente no. Mi interesso soltanto a Crippa, perché è un campione che mi piace. Ma l’atletica è lo sport che seguo meno. Quindi, invece, tutto di sci e di ciclismo. In questi giorni mi appassiona il duello tra Vingegaard e Pogacar al Tour. Sto dalla parte del danese, perché credo che sia più fondista, il più forte nella terza settimana. Ma sta correndo troppo sulle ruote di Tadej. L’altro giorno, ad esempio, avrebbe dovuto rispondere ad Adam Yates, o comunque avrebbe dovuto provare un attacco a Pogacar”.

Il momento più brutto di questi ultimi sette anni?

“Il viaggio verso l’aeroporto di Rio. Il taxi era sul percorso della 20 chilometri che si sarebbe corsa il giorno dopo e io stavo tornando in Italia con il peso della squalifica di 8 anni. Quel senso di nausea, di vuoto, non l’avevo mai provato e spero di non provarlo mai più. Nel 2012 sapevo di aver sbagliato. La colpa era mia e dovevo accettare tutte le conseguenze. A Rio no. Quella è stata un’ingiustizia”.

A casa però c’era Kathy.

“Che aspettava Ida… La mia famiglia mi ha salvato. Ha riempito quel vuoto infinito. Mi ha salvato il senso di responsabilità. Invece di pensare dalla mattina alla sera all’ingiustizia subita ho dovuto pensare a un lavoro per dare un futuro alla nostra figlia, Ida, che è arrivata nel marzo del 2017”.

Chi è per lei Sandro Donati?

“Un ottimo tecnico, ma ora anche un grande amico. Mi è sempre stato vicino. Avrebbe potuto prendere le distanze e scaricarmi, e invece ha continuato a lottare con me, accanto a me. Abbiamo vissuto insieme i cinque anni del processo di Bolzano… Sono cose che ti legano, che vanno oltre la marcia”.

È stato il miglior allenatore della sua carriera?

“Sandro è molto competente e ha una passione contagiosa. Ma non dimentico che Sandro Damilano mi ha fatto diventare un marciatore. Se non fossi andato da lui a Saluzzo, non sarei mai diventato un atleta professionista”.

Chi sono gli altri che non l’hanno mai abbandonata?

“Giulia Mancini, che mi aiuta nella comunicazione dal 2008, e il mio avvocato Gerhard Brandstatter. Mi sono stati vicini e continuano ad aiutarmi senza nemmeno chiedermi un euro…”.

Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha parlato di accompagnamento nei suoi confronti.

“L’ho ringraziato. Non era scontato che il presidente del Coni e membro Cio lo dicesse. Malagò però ha detto che c’è stato accanimento, mentre l’accanimento, purtroppo c’è ancora…”.

Si aspetta un aiuto dal Governo, dal ministro dello sport Andrea Abodi?

“Se lo riterrà opportuno, mi farà sicuramente piacere, ma io vado avanti. La vita mi ha insegnato che è meglio non avere aspettative. Comunque andrò avanti a lottare, perché prima o poi la verità venga a galla e venga riconosciuta l’ingiustizia che io e Sandro Donati abbiamo subito”.



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